Dall’altra parte del deserto che gli egiziani chiamano Deserto Libico o Occidentale (perché è a ovest del Nilo) mentre è l’estremo lembo orientale del Sahara, si snoda, parallela al Nilo, una catena di oasi, distanziate qualche centinaio di chilometri l’una dall’altra. Nella principale, Baharyya, è stata scoperta di recente una necropoli di epoca romana, con migliaia di mummie perfettamente conservate, interamente ricoperte di una lamina d’oro. Nonostante se ne sia parlato ampiamente, la necropoli non ha attirato molti visitatori. Per fortuna le centinaia di migliaia di turisti che affollano ogni anno l’Egitto si riversano tutti negli hotel di cemento della costa del Mar Rosso e delle località archeologiche più famose lungo il Nilo, e a Baharyya e nelle altre oasi del Deserto Occidentale si continua a vivere una vita tranquilla. E’ una vita semplice ma non misera. La vera miseria è quella ai margini della ricchezza, nelle periferie delle grandi città o nei villaggi attorno ai siti turistici, dove l’abisso tra ricchezza e povertà sembra incolmabile e la visione di certi quartieri stringe il cuore e fa vergognare del proprio stato di immeritevoli fruitori del benessere del mondo.
Altre oasi sono meno felici e altre popolazioni del deserto vivono meno pacificamente: gli abitanti dei villaggi assediati dalla sabbia che copre campi e case e si divora tutto, i nomadi costretti ad abbandonare un costume di vita che da secoli è il solo che conoscono e che sanno e vogliono praticare. Il Sahara è una terra magica di straordinaria bellezza, ma un inferno per viverci se mancano le condizioni minimali per l’esistenza.
La prima volta che vedemmo il Sahara era verde come un prato. C’erano state piogge eccezionali in Sudan, le strade che portavano a Khartum erano allagate e interrotte e il deserto tutto intorno alla città, che sorge alla confluenza del Nilo Bianco col Nilo Azzurro, era coperto da una vegetazione effimera, lieve come una peluria, regalo dell’abbondanza delle acque del cielo. Nelle piazze della città ristagnavano pozzanghere grandi come laghi e per tutta la notte sentimmo gracidare, anzi muggire, una rana-toro, che dalla voce immaginavamo grande come un elefante e ci deluse poi, quando la vedemmo, grossa appena come un topolino. Anche il deserto piatto, di terra, ci deluse, al primo momento; poi sparì il verde, ci sorprendemmo ai mutamenti di colore nel corso della giornata e alle nostre ombre lunghissime, scure e nette sulla terra rossa nell’ora del tramonto.
A quel punto il deserto ci aveva già stregato. Tornammo a Khartum dopo molti anni. L’areoporto di terra battuta circondato di filo spinato era stato sostituito da una costruzione moderna di eccessiva magnificenza, megaprogetto del famoso architetto italiano Paolo Portoghesi. Non c’era più, come la prima volta, il cecchino che sparava un colpo ogni cinque minuti con un fucile antiquato ai falchi che volteggiavano numerosi sopra la pista rischiando di provocare danni facendosi risucchiare dalle bocche di aspirazione dei motori a reazione (qualcosa di simile era successo anche a Linate in quegli anni, ma gli uccelli erano piccioni e non mi ricordo più come vennero eliminati; di certo non a fucilate). Attraversammo il deserto su una corriera affollata in un viaggio lentissimo senza stancarci mai dell’apparente monotonia del paesaggio, fino alle piane fertili di Kassala. Dall’alto delle montagne di basalto sopra la città guardavamo il verde delle colture confondersi con l’ocra del deserto e sfumare in un piano infinito che si congiungeva col cielo all’estremo orizzonte.
Eravamo andati a Kassala per arrampicare su quelle montagne che avevamo visto per caso in una fotografia tanti anni prima; ma c’era la guerra in Eritrea e a Kassala, sul confine, vigeva il coprifuoco: al tramonto tutti dovevano essere in città e la polizia controllava. Non potemmo accamparci sulla montagna. Andavamo all’alba fino alla base con un camioncino che passava a prenderci, salivamo fino al punto più alto raggiungibile prima che il sole arroventasse la roccia, poi aspettavamo rannicchiati all’ombra di un masso che il versante nord fosse completamente in ombra e le rocce si raffreddassero un po’ e poi ridiscendevamo di corsa per arrivare in città prima del coprifuoco. Sulla roccia esposta al sole non era possibile appoggiare le mani e bollivano anche i piedi protetti dalle suole e dalle calze - altro che arrampicare! Il progetto era di dormire sulla montagna e sfruttare le prime ore del mattino per scalare le torri lisce e arrotondate...